Di Michel Montignac
Di Michel Montignac
L'Egitto | La Grecia | Roma | L'Alto Medio Evo | Il Basso Medio Evo | I Tempi Moderni | L'Era Contemporanea
Gli storici sono unanimi oggi nell'affermare che, se è vero che l'Uomo è un essere onnivoro, per diversi milioni di anni è stato principalmente carnivoro.
Dalle origini sino all'inizio del Neolitico, circa 10.000 anni fa, l'Uomo era un cacciatore-raccoglitore nomade, il cui cibo era costituito essenzialmente di selvaggina (proteine e lipidi) ma anche bacche (frutti selvatici) o ancora radici (glucidi con indice glicemico molto basso contenenti molte fibre). La maggior parte degli autori è concorde nel ritenere che i nostri antenati mangiavano anche, in via accessoria, vegetali (foglie, germogli …) e senza dubbio anche, in qualche occasione, semi selvatici. Anche questi vegetali sono da classificarsi nella categoria dei glucidi con indice glicemico estremamente basso.
Sembra evidente che il dispendio energetico quotidiano di questi uomini primitivi fosse considerevole, non solo per via delle prove fisiche che si trovavano ad affrontare, ma anche per via della precarietà delle loro condizioni di vita che li esponeva ai rischi climatici.
La domanda che sorge spontanea è dunque capire come questi quasi «sportivi a livello agonistico» abbiano potuto, per milioni di anni, provvedere a un simile dispendio calorico avendo a loro disposizione così pochi glucidi e soprattutto nessuno degli pseudo zuccheri lenti*, che sono però considerati indispensabili dai nutrizionisti di oggi.
Diventando progressivamente più sedentario a partire dal Neolitico, l'Uomo vivrà i primi grandi cambiamenti alimentari della sua storia. Lo sviluppo dell'allevamento degli animali gli consentirà di continuare a mangiare carne (ma non proprio la stessa) e sviluppando l'agricoltura produrrà cereali (grano, segale, orzo…) e in seguito leguminacee (lenticchie, piselli…), e infine frutta e verdura.
Alcuni potrebbero credere che, sedentarizzandosi, l'uomo primitivo abbia innescato un processo che lo avrebbe condotto a migliorare la sua esistenza.
Bisogna dire però che sul piano alimentare, è accaduto il contrario. Contrariamente al cacciatore-raccoglitore del Mesolitico, l'agricoltatore-allevatore dovette in realtà ridurre notevolmente la varietà della sua alimentazione. Solo qualche raro animale, infatti, si prestava ad essere addomesticato e allevato, e solo poche specie vegetali potevano essere coltivate. Non è esagerato affermare che l'agricoltore-allevatore dovette necessariamente razionalizzare, se non addirittura ottimizzare la sua attività nel senso che attribuiamo oggi a questo termine.
Questa vera e propria rivoluzione dello stile di vita dei nostri antenati ebbe perciò delle conseguenze.
Sulla salute innanzitutto. Il monofagismo che risultava dalle mono colture si rivelò essere una fonte importante di carenze, che si tradusse con una notevole diminuzione della speranza di vita delle popolazioni interessate. Inoltre l'agricoltura (anche se realizzata su terre alluvionali ricche e ben irrigate come in Egitto e in Mesopotamia) si rivelò molto più faticosa in termini di sforzi fisici rispetto alla braccata e alla caccia della selvaggina del mesolitico, ma anche degli animali di grosse dimensioni del paleolitico superiore.
L'uomo primitivo aveva vissuto in armonia e in equilibrio con la natura e, quando il suo cibo naturale si spostava per via delle migrazioni delle specie o del ciclo delle stagioni, l'uomo si spostava anch'esso. Sedentarizzandosi s'impose nuovi vincoli e nuove restrizioni.
Uscendo da questo se si può dire "paradiso terrestre" per diventare autonomo rispetto alle sue fonti di approvvigionamento alimentare infatti, l'agricoltore-allevatore dovette in particolare fronteggiare numerosi nuovi rischi: capricci del clima, rischi rispetto alla scelta delle varietà e delle specie più o meno produttive e fragili, ma anche rischio in relazione alla scelta dei terreni più o meno adatti. La storia dei sette anni di vacche magre raccontata dalla Bibbia illustra chiaramente le incertezze di questo nuovo modo di coltura, che per natura è aleatorio.
D'altra parte, la comparsa dell'agricoltura e dell'allevamento generò, come diremmo oggi, una politica natalista e produttivistica da parte degli interessati. Dinnanzi alla paura della carestia, l'agricoltore non smetteva di pensare che bisognava produrre di più e che, di conseguenza, servivano nuove braccia.
Senza saperlo l'agricoltore e i suoi figli hanno così dato vita a un circolo vizioso. Contribuendo a uno sviluppo demografico costante, i rischi e la gravità delle carestie per via dei cattivi raccolti erano tanto più catastrofici.
Lo scopo di questo articolo non è ovviamente quello di raccontare nel dettaglio la storia dell'alimentazione umana dall'Uomo delle caverne.
Per essere esaustivi dovremmo dilungarci troppo, mentre esistono ottime opere che hanno proprio questo scopo e che volendo potrete consultare (1).
Ciò non toglie che non possiamo trattare il problema che ci preoccupa (la prevalenza dell'obesità nella nostra civiltà attuale) senza guardare a monte quali siano state le grandi fasi dell'alimentazione dell'umanità nel corso dei secoli e soprattutto dei millenni che ci hanno preceduto. Si può rammaricarsi in ogni caso che questo procedimento sia troppo spesso occultato dai nutrizionisti contemporanei.
Ma per evitare di disperderci nella nostra analisi, propongo di limitare la nostra riflessione a quelle che furono le grandi fasi dell'evoluzione della modalità alimentare delle popolazioni occidentali, quelle provenienti dalla civiltà antiche.
Ovviamente da un paese all'altro, da una regione all'altra ma anche in funzione della religione le scelte alimentari definitive e che si susseguirono, risalenti al Neolitico e, più vicino a noi, all'Antichità, sono estremamente diversificate. Ma questa grande diversità è nondimeno classificabile in categorie alimentari considerate sotto un angolo nuovo, quello della potenzialità metabolica*.
Numerose fonti scritte e figurative dell'Antico Egitto rivelano le modalità della sua produzione alimentare e testimoniano che in tutte le epoche gli Egizi ebbero a loro disposizione un ampio ventaglio alimentare.
Tra gli animali da allevamento, il maiale occupava una posizione privilegiata, ma anche il bue e la pecora erano ampiamente consumati. Bisogna dire però che gli Egizi prediligevano soprattutto i volatili selvatici o d'allevamento (oche, anatre, quaglie, piccioni, pellicani…).
I cereali, come sappiamo, erano oggetto di vaste colture nelle fertili terre del bacino del Nilo, così come le verdure (cipolle, porri, lattuga, aglio) e le leguminacee (ceci, lenticchie…).
Con simili risorse, il regime alimentare degli Egizi avrebbe potuto essere qualificato come vario e ben equilibrato.
Ma bisogna tenere conto del livello di approvvigionamento estremamente irregolare che variava in particolare secondo i capricci del Nilo.
D'altra parte, come fu la regola nelle civiltà che seguirono, la modalità alimentare degli Egizi era diversa non solo da una regione all'altra, ma soprattutto da una classe sociale all'altra. I ricchi e i privilegiati avevano, come accadde nel Basso Medio Evo e in Epoca Moderna, un'alimentazione molto più carnea. Mentre i poveri si accontentavamo nella maggior parte dei casi di un'alimentazione a base di cereali, di verdura e di legumi.
Per quanto possiamo giudicare oggi, a partire dagli strumenti d'indagine estremamente perfezionati che abbiamo a nostra disposizione, non sembra che gli Egizi siano sempre stati in buona salute. Per lo meno la grande maggioranza della popolazione, quella precisamente che si nutriva principalmente di cereali (glucidi). L'analisi di numerosi papiri, così come l'esame delle mummie, dimostra chiaramente che i loro denti erano guasti, che avevano sofferto di arteriosclerosi, di malattie cardiovascolari, e addirittura di obesità. La loro speranza di vita era del resto di gran lunga inferiore ai trent'anni. Una speciale sala del Museo del Cairo è dedicata all'esposizione di statue obese che testimoniano di una corpulenza molto diversa, per lo meno per quanto riguarda alcune etnie, da quello che si era sempre immaginato a priori a partire dalla maggiore parte degli geroglifici.
Nel mondo Greco i cereali fornivano non meno dell'80 % degli apporti energetici totali.
Ma questa scelta alimentare era molto meno la conseguenza di una realtà geografico-economico che il risultato di una politica in rapporto con un'ideologia ben particolare.
Il Greco, infatti, era convinto di essere un uomo civilizzato. Contrariamente al barbaro, che si accontentava di cogliere o di cacciare quello che trovava in natura e di cui era tributario, il Greco aveva la sensazione che, elaborando lui stesso l'alimentazione attraverso l'agricoltura, avrebbe elevato la sua condizione umana.
La carne, di conseguenza, era per il Greco un alimento disdicevole poiché era il risultato di attività passive. Per produrne era sufficiente lasciare gli animali al pascolo su terre incolte e non lavorate.
La caccia, dal canto suo, era etichettata come un'attività servile, come il riflesso di una situazione di povertà e come la conseguenza di una certa precarietà indegna di un essere civilizzato. Rappresentava dunque, per le popolazioni costrette a darsi a quest'attività, una forma di marginalizzazione e di esclusione rispetto al mondo della Città che era, come sappiamo, il pilastro del mondo Ellenico.
E gli alimenti che simboleggiavano per eccellenza questo status di essere civilizzato, erano il pane di grano ma anche il vino, l'olio di oliva e, a un altro livello, il formaggio.
In altri termini, tutto ciò che non esisteva allo stato naturale, ma che risultava dall'intervento e dalla trasformazione dell'uomo era considerato nobile. Solo addomesticando e trasformando la natura, «fabbricando» in qualche modo il suo cibo, l'uomo poteva aspirare alla civiltà.
Tuttavia, al più gran dispiacere dei filosofi dell'epoca, la realtà quotidiana della Grecia Antica non era sempre perfettamente conforme ai loro ideali.
Questa particolare modalità alimentare, infatti, non dava importanza alle zuppe di verdure miste e alle pappe di cereali grezzi e di legumi secchi che rappresentavano il normale cibo quotidiano del popolo.
Ciò non toglie che per l'insieme della popolazione (salvo per il soldato carnivoro della tradizione ellenica che traeva la sua forza erculea dalla carne degli animali), il consumo di carne rimaneva marginale, quasi un tabù se si considera che era riservata ai sacrifici. Le pecore erano dunque allevate principalmente per la lana e il latte, dal quale si faceva il formaggio. I bovini erano rari ed erano utilizzati come bestie da soma e da tiro.
I pesci (crostacei compresi) erano invece ampiamente consumati benché non fossero oggetto di alcuna trasformazione.
La sofisticatezza dell'atto della pesca e il carattere rude del lavoro del pescatore giustificavano senza dubbio il fatto che il pesce non fosse stato classificato tra i cibi incivili. Forse, però, era solo per via di un certo realismo che questo cibo era sfuggito all'ideologia restrittiva in materia alimentare, considerato che non solo il pesce era presente in grandi quantità, ma che rappresentava anche una tradizione per i popoli del bacino mediterraneo.
in questo modo, benché sia sempre difficile generalizzare, si può considerare che l'apporto proteico nell'alimentazione dei Greci fosse piuttosto basso. A tal punto che sarebbe lecito chiedersi se questa carenza nella maggioranza della popolazione non abbia provocato un indebolimento della loro salute. Ciò spiegherebbe meglio, forse, il motivo per cui la medicina detta "moderna", sotto l'egida di Ippocrate, sia nata proprio in Grecia.
Per i Romani il ruolo della carne è molto più importante perchè vige per questo popolo la tradizione «italica» dell'allevamento dei maiali, ereditata dagli Etruschi. Anche se non riveste un ruolo primordiale nella loro alimentazione, occupa una posizione non trascurabile nell'apporto di proteine animali.
Ma l'alimento simbolo dei Romani rimane, come per i Greci, il Pane (di grano), e in particolare per il Soldato Romano.
L'alimentazione simbolo del legionario è infatti il pane, anche se è accompagnato da olive, da cipolle, da fichi e da olio. Bisogna dire che questo cibo è di gran lunga il suo preferito, al punto che quando gli si propone della carne si oppone.
Questo cibo esclusivamente vegetariano, eppure leggermente corroborante, fa del soldato un essere «pesante», il cui sovrappeso non è solo una leggenda. Bisogna dire che gli viene chiesto soprattutto di occupare, di sopportare e di resistere. La sua forza (d'inerzia) proviene dal suo potere di rimanere immobile sotto i colpi del nemico. Quando l'esercito romano ha bisogno di combattenti mobili, svelti e veloci, chiama a raccolta gli alleati barbari.
Essere legionario per un contadino romano è un onore. Si tratta, infatti, di uno strumento di emancipazione sociale che consente di diventare cittadini a tutti gli effetti. Il pane di grano, alimento nobile, è pertanto il solo all'altezza di questo status prestigioso.
Il Romano del popolo, infatti, consuma in fondo poco grano. Oltre al maiale, al pollame e al formaggio, e a volte al pesce, si nutre abbondantemente di verdura (essenzialmente il cavolo) e di cereali grezzi vari.
La coltura del grano è ovviamente il simbolo di una certa ricchezza che è appannaggio di una classe superiore nella gerarchia censuaria.
Ma il grano non è solo l'alimento dei privilegiati. Serve anche al potere per soffocare la carestia. Paradossalmente, questo alimento dei ricchi è distribuito dal potere ai poveri durante i periodi di penuria.
In conclusione si può dunque affermare che i Romani avevano un'alimentazione leggermente più equilibrata rispetto a quella dei Greci, per via di un maggiore apporto proteico.
Solo i legionari avevano un'alimentazione decisamente carente. Da qui a ritenere che l'alimentazione povera dei soldati non fosse estranea alla caduta dell'Impero Romano non vi è che un passo, che alcuni osservatori non hanno esitato a fare.
Colonizzando le regioni mediterranee ed Europee, i cui abitanti erano per loro dei barbari, i Romani non facevano altro che trasmettere alle popolazioni conquistate la loro ideologia. Probabilmente, però, nel loro tentativo di proselitismo alimentare, incontrarono una forte opposizione.
Le due civiltà, infatti, erano in completa opposizione su questo piano. Vi era da un lato quella della carne, del latte e del burro, e dall'altra quella del pane, del vino e dell'olio. Il mito dell'agricoltura e della città si opponeva selvaggiamente a quello delle foreste e dei villaggi.
L'opposizione tra queste due modalità alimentari raggiunse l'apice nel III° e IV° secolo quando i rapporti di forza si rovesciarono a beneficio dei barbari.
Ciò non toglie che anche dopo la caduta dell'Impero, il modello Romano lasciò tracce profonde nelle popolazioni delle loro ex colonie.
E il vettore principale di questa integrazione fu il Cristianesimo. Quest'ultimo, infatti, era il vero e proprio erede di questo mondo Romano e delle sue tradizioni, i cui simboli alimentari erano comuni: il pane, il vino e l'olio. Sin dall'edificazione delle chiese e dei monasteri, il clero si affrettò infatti a seminare grano e piantare viti a margine dei campi.
Più che di una conversione dei barbari all'ideologia romana, è più corretto parlare di simbiosi tra due diverse culture. Questa integrazione dell'ideologia romana, infatti, non rimetteva in questione la tradizione barbara, che ne usciva addirittura rafforzata! La caccia, l'allevamento di animali in semi-libertà, la pesca di fiume e di lago, la raccolta, erano elevati al rango di attività nobili alla stregua dell'agricoltura e della coltura delle viti. Lo sfruttamento della foresta era una pratica corrente degna di considerazione sul piano sociale per coloro che la esercitavano. Mentre i vigneti erano misurati in anfore di vino, i campi in "boisseau" di grano e i prati in carri di fieno, le foreste dal canto loro erano "misurate" in maiali (dei quali il cinghiale era l'antenato), un'unità di misura cara alla civiltà celtica e sempre in vigore nel mondo germanico.
Questo sistema «agro-silvo-pastorizio» forniva così alle popolazioni interessate un'alimentazione estremamente diversificata. L'apporto di proteine animali era particolarmente importante (carne, pollame, pesce, uova, latticini).
I cereali inferiori (orzo, farro, miglio, sorgo, segale…) molto più diffusi del grano erano spesso accompagnati da legumi (fave, fagioli, piselli, ceci).
Le verdure coltivate nell'orto, che sfuggiva a qualsiasi imposta, rappresentavano un complemento importante alla preparazione di zuppe, nelle quali si metteva sempre a cuocere la carne.
Questa complementarità tra le risorse animali e vegetali consentì dunque di garantire un cibo equilibrato alle popolazioni europee dell'Alto Medio Evo.
I numerosi studi sui resti umani scoperti, appartenenti a quest'epoca, lasciano intendere che gli individui erano piuttosto in buona salute. Il loro sviluppo fisiologico e gli indici di crescita si rivelano in generale normali. La composizione delle loro ossa illustra chiaramente che erano in buono stato e si notano poche malformazioni. I denti sono in linea di massima sani e presentano un'usura minima. Quando i denti sono rovinati e usurati, è il sintomo di un'alimentazione basata essenzialmente su cereali macinati grossolanamente.
Non sembra dunque che l'Alto Medio Evo abbia conosciuto malattie di carenza o di malnutrizione, come quelle che caratterizzarono i secoli successivi.
Allo stesso modo, questo sistema di produzione alimentare diversificata, che operava inoltre in seno a una demografia stabile, sembra aver consentito, attraverso la sua relativa sicurezza, di evitare che i periodi di carestia diventassero catastrofici.
Pur non essendo stata un'epoca di cuccagna, l'Alto Medio Evo non era così sordido e oscuro come alcuni vogliono farci credere. Sul piano alimentare in ogni caso, sia dal punto quantitativo che dal punto di vista qualitativo, questo periodo fu piuttosto soddisfacente e comunque di gran lunga superiore al periodo successivo.
A partire dalla metà del X° secolo gli equilibri della produzione alimentare che si erano insediati nell'Alto Medio Evo sono stati progressivamente rimessi in questione.
Il sistema agro-silvo-pastorale, che aveva funzionato relativamente bene data la stabilità demografica, è ormai minacciato anche se continua a funzionare in alcune regioni, soprattutto in montagna.
Sotto l'impulso di una forte spinta demografica, questa economia di sussistenza presenta sempre maggiori difficoltà a provvedere ai bisogni alimentari della popolazione.
Bisogna anche dire che, oltre all'aumento del numero di bocche da sfamare, le condizioni strutturali di questa economia sono radicalmente cambiate: con lo sviluppo del commercio sta emergendo una vera e propria economia di mercato.
D'altra parte, i proprietari terrieri (detentori del potere politico) scoprono che possono ormai trarre profitto dalle loro proprietà estendendo le colture a scapito delle terre incolte che servivano spesso da pascolo, e intensificando il lavoro dei contadini.
Si pone l'accento sulla cultura dei cereali, sia perchè sono facili da conservare e da stoccare, ma anche perchè consentono di soddisfare la richiesta dei nuovi circuiti commerciali.
Progressivamente il paesaggio agrario europeo si trasforma. Il dissodamento diventa sistematico e provoca addirittura la scomparsa di intere foreste.
I cereali diventano così l'elemento principale e sempre determinante dell'alimentazione contadina. Il diritto di caccia e di pascolo diventa illimitato e di conseguenza la carne scompare poco a poco dalle tavole delle aree rurali, restando appannaggio delle classi superiori.
Anche se con il favore della pesta nera verso la metà del XIV° secolo la pressione demografica segna il passo, cosa che consente alla produzione di carne di fare nuovamente la sua comparsa nelle fattorie, la progressiva differenziazione dei regimi alimentari in funzione delle classi sociali si afferma sempre più.
Parallelamente vi sono due categorie sociali che continuano a beneficiare di un privilegio alimentare. Innanzitutto l'aristocrazia i cui membri sono per tradizione dei mangiatori di carne. Ma anche gli abitanti delle città, di qualsiasi classe sociale, che per via di una politica di approvvigionamento sostenuta dalle autorità che temono sempre le sommosse in caso di carestie, hanno a loro disposizione una grande varietà di alimenti tra i quali la carne occupa un posto importante.
Questa opposizione tra un modello «urbano» e un modello «rurale» di consumo alimentare emerge in modo molto netto alla fine del Medio Evo in tutti i paesi europei, anche se esisteva già da diversi secoli in Italia dove, sotto l'impulso romano, il fenomeno urbano si era ampiamente sviluppato.
Il modello «urbano» corrisponde in realtà a un'economia di mercato, mentre il modello «rurale» rimane un'economia di sussistenza. Questi due modelli si contrappongono anche in termini quantitativi e qualitativi.
Il pane bianco delle città si contrappone al pane nero delle campagne così come le carni fresche (in particolare di pecora) delle città si contrappongono alle carni salate di maiale (salumi) delle campagne.
Di conseguenza, questa contrapposizione è altresì visibile a livello della salute. Gli abitanti della campagna erano ovviamente doppiamente sfavoriti rispetto ai cittadini. Innanzitutto perchè erano mal nutriti (insufficienza di apporto proteico in particolare), ma anche perchè le loro condizioni di lavoro erano drammaticamente difficili.
Questo periodo è dominato da diversi eventi che contribuiranno tutti a modificare nuovamente il paesaggio alimentare delle popolazioni interessate.
Innanzitutto vi è il proseguimento del fenomeno urbano che continua ad agevolare un'economia di mercato. Le città attirano, infatti, un numero sempre crescente di persone.
Ma è soprattutto la ripresa dell'espansione demografica che, in assenza di grossi progressi scientifici per aumentare i rendimenti, provoca uno sconvolgimento di tutte le strutture di produzione e di approvvigionamento alimentare.
La popolazione europea conta circa 90 milioni d'individui nel XIV° secolo. In seguito aumenta di oltre il 10% per secolo per raggiungere quota 125 milioni alla fine del XVII° secolo. Nel corso del XVIII° secolo, però lo sviluppo demografico aumenta considerevolmente. Nel 1750 la popolazione europea conta circa 150 milioni d'individui e raggiunge quasi i 200 milioni all'inizio del XIX° secolo.
Questa espansione demografica senza precedenti si traduce ineluttabilmente nella ripresa dei dissodamenti. E, come in passato, l'ampliamento delle terre destinate ai cereali si compie a scapito degli spazi destinati all'allevamento, alla caccia e alla raccolta. Ancora una volta l'espansione dell'agricoltura ha come conseguenza un aumento della percentuale dei semi nell'alimentazione popolare che, per questo motivo, diventa meno varia e sempre più carente di proteine.
Il consumo di carne diminuisce dunque drasticamente, in particolare nelle città dove, come abbiamo visto, era rimasta considerevole nel periodo precedente.
A Napoli per esempio nel XVI° secolo si uccidevano circa 30.000 bovini l'anno per una popolazione di 200.000 persone. Due secoli più tardi ne venivano uccisi solo 20.000 mentre la popolazione era di 400.000 persone.
A Berlino il consumo di carne pro capite nel XIX° secolo era dodici volte inferiore rispetto al XIV° secolo.
Nel Languedoc alla fine del XVI° secolo la maggiore parte delle fattorie allevavano un solo maiale l'anno, una quantità tre volte inferiore rispetto all'inizio del secolo.
Questo notevole degrado della razione alimentare della gente del popolo variava ovviamente in funzione del paese e della regione. Lasciò comunque tracce innegabili nelle popolazioni interessate, la cui salute fu molto colpita.
Secondo numerose statistiche, questi eventi avrebbero addirittura influito negativamente sull'altezza degli individui.
Nel corso del XVIII° secolo l'altezza media dei soldati reclutati dagli Asburgo sembra essere diminuita, così come quelle delle reclute svedesi. In Inghilterra, e in particolare a Londra, si nota che l'altezza degli adolescenti è notevolmente diminuita alla fine del XVIII° secolo. All'inizio del XIX° secolo l'altezza dei tedeschi sarebbe stata nettamente inferiore a quella che era nel XIV° e nel XV° secolo.
D'altra parte, più i cereali occupavono un posto importante nell'alimentazione popolare, più le crisi dei cereali dovute ai cattivi raccolti avevano un impatto sulla salute, ma anche e soprattutto sulla mortalità.
Diversi autori citano il caso dei ricchi proprietari Beaucerons che, in occasione delle gravi crisi dei cereali, andavano a cercare rifugio presso i poveri di Sologne la cui produzione alimentare più arcaica, dunque più varia, aveva consentito loro di resistere alle crisi.
Allo stesso modo gli abitanti delle aree montane sfuggivano sempre alle carestie nella misura in cui il loro regime alimentare abbinava i prodotti dell'agricoltura, dell'allevamento, della raccolta, della caccia e della pesca. Per questo motivo gli abitanti della montagna, la cui alimentazione non presentava carenze, erano molto più alti e forte rispetto alla media. Questo migliore stato di salute spiegava dunque perchè fossero molto più attivi e intraprendenti degli altri.
Un altro fattore che ha concorso all degrado del regime alimentare del contadino è stata la trasformazione della proprietà rurale, che passava progressivamente nelle mani dei ricchi proprietari (signori, borghesia …). Nell'Ile de France a metà del XVI° secolo solo un terzo delle terre apparteneva ancora ai contadini.
Un secolo più tardi il numero di piccoli proprietari era ancora diminuito. In Borgogna, in alcuni villaggi, essi erano quasi tutti scomparsi dopo la guerra dei trent'anni.
Lo spossessamento dei contadini è tanto più incidente e rapido quando più a regione dove avviene è ricca e vicina alle città. Questo asservimento dei contadini, congiuntamente all'aumento del lavoro ingrato, aggrava notevolmente le loro condizioni di vita, ma consente d'altro canto di generare una produzione considerevole che è in maggioranza venduta ed esportata nei paesi economicamente più avanzati.
Una delle principali preoccupazioni dei dirigenti di quell'epoca - quanto meno in Francia - è il problema dell'approvvigionamento.
Lasciato per lungo tempo all'iniziativa delle municipalità, il potere centrale si preoccupa sempre del rischio di sommosse popolare nell'ipotesi in cui il pane venisse a mancare. Per questo motivo il Re inizia a stoccare il grano per far fronte agli eventuali periodi di carestia. Ma questa politica di regolazione è troppo spesso interpretata come un tentativo di monopolio per far aumentare il corso del grano.
Alla fine del XVIII° secolo le autorità sono sempre più coscienti che il problema del pane (dunque della monocoltura del grano) diventa ogni giorno più esplosivo. Si cercano dunque disperatamente alimenti sostitutivi.
Parmentier propone la Patata, che però sin dalla sua scoperta nel XVI° secolo è considerata come «il cibo buono per i maiali», e ottiene poco successo. Bisognerà attendere la metà del XIX° secolo affinché s'imponga come alimento a tutti gli effetti.
Altre diversificazioni sono meno felici. In Italia e nel Sud Ovest della Francia le gallette e le pappe d'orzo e di miglio furono sostituite da gallette di polenta di mais. L'inconveniente fu che si dovette in seguito fronteggiare le varie epidemie di pellagra provocate da una carenza di vitamina PP nel mais, quando questo cereale è consumato come alimento di base.
Numerosi altri nuovi alimenti giunsero poi dal Nuovo Mondo (il pomodoro, il fagiolo messicano, il tacchino…) ma la loro introduzione molto lenta e progressiva in agricoltura non cambiò davvero il paesaggio alimentare.
Oltre all'emergere della patata, che in alcuni paesi come l'Irlanda divenne la base dell'alimentazione con rischi identici a quelli del grano in caso di carestia, altri due fenomeni alimentari che sopraggiunsero nel XIX° secolo meritano di essere sottolineati dato il loro impatto futuro sulla salute dei nostri contemporanei.
Il primo è l'introduzione progressiva dello zucchero nell'alimentazione dell'insieme della popolazione. Lo zucchero non era un alimento nuovo, ma fintanto che era prodotto a partire dalla canna da zucchero era rimasto un ingrediente molto marginale per via del suo costo elevato. In Francia il consumo di zucchero l'anno pro capite all'inizio del XIX° era di 0,8 chili. Ma per via della scoperta del processo di estrazione dello zucchero dalla barbabietola nel 1812, il prezzo dello zucchero non smise di scendere e lo zucchero divenne un alimento di largo consumo (8 chili l'anno pro capite nel 1880, 17 kg nel 1900, 30 kg nel 1930 e quasi 40kg nel 1960); bisogna dire che i francesi sono tuttora i minori consumatori di zucchero del mondo occidentale.
Il secondo è la scoperta nel 1870 del mulino a cilindro che permise di mettere a disposizione della popolazione la vera farina bianca a un prezzo abbordabile per tutti.
Dagli Egizi, infatti, l'uomo ha sempre voluto raffinare (abburattare) la macinatura del grano per ottenere la farina bianca.
Ma l'abburattamento, in realtà, era realizzato in modo molto grossolano e la macinatura era semplicemente passata al setaccio. Questa operazione aveva soprattutto lo scopo di liberarla da una parte della crusca, l'involucro esterno dei chicchi di grano.
Il pane bianco dei nostri antenati non era altro che ciò che oggi chiamiamo pane nero, ossia il pane semi-integrale.
Se si considera però che questa operazione di setacciatura della macinatura era lunga e onerosa (era realizzata a mano), ciò spiega perché il pane bianco fosse un lusso che solo i privilegiati potevano permettersi.
L'avvento del mulino a cilindro alla fine del XIX° secolo e la sua generalizzazione all'inizio del XX° secolo avrebbe dunque cambiato radicalmente la natura della farina, che risultò di gran lunga impoverita sul piano nutrizionale, poiché era costituita esclusivamente di amido. Le preziose proteine, le fibre, gli acidi grassi essenziali e le altre vitamine B erano per la maggior parte eliminate con l'operazione di raffinazione.
Il fatto che la farina fosse diventata improvvisamente un alimento impoverito sul piano nutrizionale non rappresentava un vero problema per la salute dei ricchi, poiché le classi privilegiate beneficiavano di un'alimentazione varia ed equilibrata.
Ma per gli strati sociali svantaggiati, per i quali il pane era rimasto la base dell'alimentazione, il consumo di questo alimento sprovvisto del suo valore nutrizionale avrebbe accentuato le carenze di un'alimentazione che era già piuttosto squilibrata.
Oltre alla povertà nutrizionale, lo zucchero e la farina bianca si contendono con la patata il triste privilegio di provocare effetti dannosi sul metabolismo (iperglicemia, iperinsulinismo) che come sappiano sono fattori di rischio maggiori dell'obesità, del diabete e delle malattie cardiovascolari.
L'era contemporanea comincia all'inizio del XIX° secolo e prosegue sino ai giorni nostri, ed è caratterizzata da un certo numero di eventi importanti che, a diversi livelli, avranno una notevole incidenza sull'evoluzione delle abitudini alimentari. Prima fra tutti la rivoluzione industriale che provoca l'esodo rurale e la formidabile espansione dell'urbanizzazione. Ma anche il trionfo dell'economia di mercato rispetto all'economia di sussistenza, così come il fenomenale sviluppo dei trasporti e del commercio internazionale.
L'industrializzazione dell'alimentazione è notevole. Le produzioni di derrate tradizionali (farine, oli, marmellate, burro, formaggio…) che un tempo erano realizzate artigianalmente sono ormai gestite all'interno di fabbriche di grandi dimensioni, se non grandissime. Ma la scoperta di procedimenti di conservazione (l'appertizzazione e in seguite il surgelamento) consentono di condizionare un gran numero di alimenti freschi sotto forma di conserve o di surgelati (frutta, verdura, carne, pesce…)
L'evoluzione dei costumi e della società è caratterizzata dal degrado della funzione della padrona di casa, e l'emancipazione femminile agevola lo sviluppo dell'industria del «pronto in tavola» (piatti pronti, ristorazione collettiva…).
Lo sviluppo dei trasporti e del commercio mondiale non solo consente di generalizzare il consumo di prodotti esotici (arance, pompelmi, banane, arachidi, cacao, caffè, tè..) ma anche di destagionalizzare la produzione di prodotti freschi (fragole e lamponi a Natale, mele e uva in primavera...)
Tuttavia il fenomeno più caratteristico di questo periodo si esprime soprattutto in questi ultimi cinquant'anni a un ritmo straordinario, si tratta della globalizzazione di abitudini alimentari destrutturate di tipo nord americano delle quali il fast food (ristorazione veloce) è uno dei fiori all'occhiello. Grazie a Dio la maggior parte dei paesi continua a mantenere un certo attaccamento alle proprie abitudini alimentari tradizionali. Si tratta in particolare dei paesi latini nei quali la tradizione in questo settore resiste ancora. In questi paesi si assiste addirittura a una sorta di rinnovamento del culto delle tradizioni culinarie e gastronomiche.
Ma queste resistenze localizzate non saranno mai sufficienti a rallentare l'ineluttabile standardizzazione mondiale (globalizzazione) delle abitudini alimentari di tipo nordamericano che contaminano insidiosamente tutte le culture.
Sappiamo però che queste abitudini alimentari dannose, sviluppandosi, portano con sé, come accadde nel paese d'origine (gli Stati Uniti) uno straordinario aumento dell'obesità, del diabete e delle malattie cardiovascolari, tre dei maggiori flagelli metabolici con i quali l'umanità si trova ora a doversi confrontare.
Per questo motivo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal 1997 denuncia questa situazione con fermezza indicandola come una vera e propria pandemia.
* La potenzialità metabolica di un alimento è il suo valore qualitativo sul piano nutrizionale. La dietetica tradizionale si accontentava per esempio di parlare di grassi o di glucidi in generale, mentre sappiamo oggi che bisogna operare delle distinzioni all'interno di ogni categoria. Vi sono infatti grassi che hanno potenzialità negative sul piano cardiovascolare (per esempio fanno alzare il colesterolo) e altri che presentano potenzialità positive, come l'olio d'oliva che riduce i fattori di rischio cardiovascolare. Allo stesso modo è ormai imperativo distinguere i glucidi in funzione del loro indice glicemico(IG). Se l'IG di un alimento è elevato (zucchero, patata, farina raffinata...) il suo potenziale metabolico è negativo perchè costituisce un fattore di rischio importante sul piano dell'aumento di peso o dell'eventuale sviluppo del diabete.
(1)" Histoire de l’alimentation", J.L. Flandrin e M. Montanari edito da Fayard